martedì 27 novembre 2012

Chi è Luciano Pero? Scopriamo gli ospiti del seminario del 29 novembre

Luciano Pero è docente di Organizzazione per il Mip Politecnico di Milano e professore a contratto di Sistemi Organizzativi presso la Facoltà di Ingegneria dei Sistemi sede di Como. Si interessa di innovazione organizzativa, architetture dei sistemi informativi, relazioni industriali e mercato del lavoro.

Partiamo da Pomigliano. Nel nuovo accordo molti hanno denunciato un peggioramento delle condizioni di lavoro degli operai, che è stato imputato all’introduzione di un nuovo modello organizzativo, il Wcm (World Class Manufacturing). Di cosa si tratta?
Il cosiddetto Wcm è semplicemente il toyotismo evoluto e applicato all’industria dell’automobile. L’ispiratore del toyotismo è Taiichi Ohno, un genio alla pari di Ford e di Taylor nell’organizzazione del lavoro, che in realtà però non era molto interessato agli operai, nel senso dei tempi di lavorazione. Per lui il punto fondamentale era consegnare a tempo, la sincronizzazione finale col cliente, il famoso "just in time”, non far lavorare più rapidamente la gente. Tanto più che lavorare troppo rapidamente danneggia la qualità, come noto, in tutti i settori. Infatti nel sistema Toyota ci sono dei tempi ciclo di riferimento, ma non c’è assolutamente l’ossessione fordista di tagliare i tempi, il tempo standard, il tempo-ciclo, ecc. Non solo, Taiichi Ohno ha inventato la polivalenza, cioè i ruoli e le mansioni non sono sempre gli stessi e con lo stesso tempo ciclo, ma variano e sono meno legate al vincolo di tempo. Il toyotismo ha cambiato completamente il concetto di tempo, da un’idea di cronometro e quindi di taglio dei tempi alla catena di montaggio, ha introdotto il tema della sincronizzazione: tempi predefiniti, certi, umani, sostenibili.
L’idea della fabbrica, e quindi della catena di montaggio, non è più quella di andare più veloce per produrre sempre di più, ma di andare a passo molto sincronizzato, garantendo la qualità totale e la soddisfazione del cliente.
Il toyotismo da questo punto di vista è molto innovatore e coinvolge anche l’operaio di catena. Ricordiamo poi che non c’è solo l’operaio di catena ad avanzamento precostituito. Quella è un’esigua minoranza.
Tanto per dare un’idea, del milione e seicentomila lavoratori dell’industria metalmeccanica in Italia, chi lavora con catene ad avanzamento precostituito meccanico, dove cioè non è la persona che manda avanti il lavoro, sarà, sì e no, il 10-15%, sicuramente non più del 20%. Tutti gli altri lavorano in situazioni di supporto alla macchina, per cui il tempo è dato dalla macchina a cui tu dai assistenza, carico, scarico, ecc., oppure fanno delle lavorazioni che loro stessi mandano avanti in un modo o nell’altro.
Nel corso del tempo, gli allievi o i successori di Taiichi Ohno hanno sviluppato il toyotismo in diverse direzioni, per cui in tutto il mondo viene applicato in modo diverso. Non c’è grande azienda al mondo che non si sia fatta il suo sistema. Le fabbriche tedesche dell’automobile, ad esempio, hanno un loro modo di applicare il just in time, la General Motors ha il suo, Toyota pure. Gli altri giapponesi e i coreani hanno a loro volta reinterpretato il modello originario. Si può quasi dire che non c’è grande impresa che non abbia la sua visione del toyotismo.
Fiat, in Italia, aveva fatto un primo tentativo di introdurre il toyotismo con la fabbrica integrata di Melfi, dove in alcuni reparti, in particolare alla lastratura e alla costruzione della scocca, erano stati adottati sistemi molto evoluti, robotizzati. Il sistema fabbrica integrata era in fondo una modalità di applicazione del toyotismo, ma molto automatizzata.
Negli anni più recenti, in seguito alla crisi Fiat, da quando è arrivato Marchionne per intenderci, è stata imboccata una strada nuova, ispirata da uno degli allievi di Taiichi Ohno, il professor Yamashina, il quale ha elaborato il toyotismo costruendo una grande summa, che si chiama appunto World Class Manufacturing.
A differenza di Taiichi Ohno, i cui testi sono molto semplici (ci sono alcune grandi idee ispiratrici e molta pratica sperimentale), Yamashina ha prodotto una sorta di "summa teologica” classificazione molto articolata, che comprende dieci pilastri tecnici e otto pilastri manageriali. Questi pilastri -pillar vuol dire proprio colonna- in realtà sono aree tematiche: la qualità, il posto di lavoro, la sicurezza, la logistica, ecc., rispetto ai quali vengono suggeriti diversi metodi, tecniche di indagine e di miglioramento del lavoro.
Attorno a questi pilastri o aree tematiche, si individuano come delle prescrizioni. Potremmo dire che il Wcm è una specie di catechismo, una filosofia che dà delle indicazioni sull’organizzazione, sul flusso del lavoro, sulla qualità, sulla logistica, ma in realtà non entra nel singolo posto di lavoro, non si occupa di tempi e ritmi. A regolare questo livello, nel caso di Pomigliano, è invece il sistema Ergo Uas.
Che cos’è l’Ergo Uas?
L’Ergo Uas è un sistema evoluto di definizione dei movimenti e dei tempi in posti di lavoro semiautomatici o manuali. E’ una sorta di evoluzione del metodo Mtm (Misurazione Tempi e Metodi), questo sì di origine fordista, taylorista. L’Ergo Uas viene molto usato in Germania e addirittura computerizzato, perché il sistema calcola automaticamente i tempi medi di lavorazione in funzione della numerosità, dei pesi, del tipo di movimento, quindi è anche un sistema ergonomico, che aiuta a progettare delle linee di montaggio, di assemblaggio, comunque dei posti di lavoro, cercando di minimizzare la fatica dell’operaio, di evitare movimenti che a lungo andare possono diventare pregiudizievoli per la salute o anche per la stanchezza del lavoratore. In questo senso ha contemporaneamente uno scopo ergonomico e uno scopo di controllo del lavoro.
L’Ergo Uas è adottato in moltissime fabbriche tedesche perché è anche una garanzia. Potrà non piacere, ha sicuramente dei difetti, ma nel sistema italiano è indubbiamente un’innovazione.
Per essere chiari: un milione di lavoratori metalmeccanici, se applicassero l’Ergo Uas, starebbero meglio. Perché se tu giri per le fabbriche metalmeccaniche italiane, in un sacco di posti si usano ancora martelli, cacciaviti, ci si alza in punta di piedi e ci si piega a metà schiena, altro che la "sezione aurea” di cui parla Yamashina.
La sezione aurea è quello spazio dei movimenti meno faticosi in cui la persona non deve piegar la schiena, non deve inginocchiarsi, ecc.
Preciso anche che nemmeno l’Ergo Uas, di per sé, propone un ritmo di lavoro, è un supporto alla definizione dei ruoli. Se la Fiat vuole mettere dei posti di lavoro con tempo ciclo un minuto, l’Ergo Uas ti aiuta a farlo in un minuto, se vuole mettere un tempo ciclo di 3-4 minuti ricomponendo le mansioni, l’Ergo Uas ti aiuta a farlo in 3-4 minuti.
Io poi sono abbastanza sicuro che, se si lasciassero liberi i team di lavoro di decidere l’attribuzione delle mansioni, i risultati sarebbero sorprendenti. Cioè se gli operai, da soli, avessero il potere di farlo, troverebbero sicuramente soluzioni migliori di quelle di adesso, le mansioni sarebbero ricomposte maggiormente, ci sarebbero meno sprechi, le aziende guadagnerebbero in produttività, gli operai farebbero meno fatica, e l’intera industria italiana andrebbe meglio. Questa come mia convinzione personale.
Per questo ritengo che il principale difetto dell’accordo di Pomigliano stia nel fatto che non è prevista una partecipazione dei lavoratori diretta alla progettazione della nuova fabbrica.
Personalmente non ritengo invece ci sia una violazione dei diritti costituzionali o chissà cosa. Sì, è un accordo duro, difensivo, dove si arretra rispetto a conquiste del passato (come ad esempio la mezz’ora di mensa) ma che va valutato nel nuovo contesto mondiale creato dalla globalizzazione.
Penso in generale che questa fase possa essere affrontata ancora con lo strumento dei contratti nazionali, resi più "leggeri” ma comunque utilissimi come quadro di riferimento nazionale e poi con accordi aziendali o settoriali che affrontino i problemi caso per caso. Da questo punto di vista l’accordo di Pomigliano non mi sembra da imitare; bisogna piuttosto imitare tutte le altre categorie industriali che hanno affrontato il nuovo periodo storico con nuovi accordi sia a livello nazionale che aziendale a mio avviso più efficaci e che purtroppo non sono andati in televisione.
La perdita della mezz’ora di mensa a Pomigliano è una perdita, non c’è dubbio. Però non dimentichiamo che la pausa mensa retribuita è una peculiarità italiana.
In che senso?
La mezz’ora di mensa pagata dentro il turno è un’anomalia tutta italiana, legata anche al fatto che in tantissime fabbriche, soprattutto una volta, gli operai che andavano a mensa lasciavano girare le macchine, per cui l’operaio faceva pausa, ma la macchina andava avanti. Questa è una vexata quaestio sulle statistiche e sugli orari. Federmeccanica, ad esempio, ha sempre detto che l’orario dei turnisti è di 37 ore e mezzo e non di 40, perché c’è la mezz’ora di mensa. Io ho sempre fatto notare che è vero che il turnista non lavora, però non è produzione persa, perché nella maggioranza delle fabbriche dove ci sono le macchine automatiche, la produzione va avanti, quindi se il turnista lavora 37 ore e mezza, le macchine lavorano all’incirca 40 ore, magari 39.
Naturalmente, dove invece il lavoro è tutto manuale, oppure il sistema non funziona se mancano gli operai, la mezz’ora di mensa vuol dire fermare la produzione, com’è il caso delle linee di assemblaggio.
Allora Marchionne ha preteso un accordo duro, questo è vero, con clausole forti contro l’assenteismo, ha abolito la mezz’ora di mensa, che è una cosa storica, ma questo è un altro effetto della globalizzazione. Negli altri paesi c’è la mezz’ora di mensa, ma non pagata. Se tu fai il turnista, hai la mensa a metà o alla fine, a seconda dei casi, però lavori otto ore. Da noi invece il turno è di sette ore e mezza.
Anche per questo nel nostro paese la riduzione di orario negli anni ‘90 è stata inferiore rispetto a quanto avvenuto in Francia, in Germania, e anche in Svezia. Federmeccanica ha rifiutato la riduzione dell’orario di lavoro, proprio in base alla considerazione che i turnisti l’avevano già ridotto, perché effettivamente il turnista farebbe 37 ore e mezza, pagate 40.
Comunque, anche su questo problema, piuttosto di fare battaglie di bandiera, forse la mezz’ora di mensa messa alla fine poteva essere oggetto di trattativa. Con un po’ di ingegneria, di architettura dei turni, probabilmente si poteva cercare di spostare questa mezz’ora collocandola a metà così da rendere il turno meno pesante. Non è detto che su questo non si intervenga successivamente. In fondo, credo interessi anche alla Fiat verificare se non sia fattibile una cosa del genere.
Poi ci sono le pause, che scendono da 40 a 30 minuti...
Anche qui, non mi sembra un provvedimento scandaloso. I 30 minuti di pausa sono la prassi un po’ in tutto il mondo. Va bene, in Fiat ce n’erano 40, ma potrebbe anche essere che sulle nuove linee il lavoro sia un po’ meno faticoso. Sono tutti punti da verificare nel merito.
La cosa che io vedo veramente mancare, lo ripeto, è la partecipazione dei lavoratori nella definizione dell’organizzazione del lavoro. Mi auguro che questa possa scattare una volta che la fabbrica effettivamente parte. D’altronde, anche secondo il Wcm i lavoratori devono partecipare al miglioramento produttivo.
Mi sarei aspettato che i sindacati firmatari, ma anche quelli che non hanno firmato, chiedessero in cambio di questi sacrifici -perché i sacrifici indubbiamente ci sono- una maggior partecipazione. Io sarei per contrattualizzare il Wcm. Il Wcm ha tutto un capitolo sul miglioramento continuo, che prevede la partecipazione non solo di tecnici di fabbrica, specialisti, eccetera, ma anche di tutti i lavoratori.
Purtroppo l’impresa e i sindacati vedono la contrattazione come un ulteriore vincolo alla organizzazione produttiva. La contrattazione invece nel caso del Wcm può essere un’opportunità, sia per l’impresa che per i sindacati, per stimolare la partecipazione dei lavoratori, con un sicuro guadagno in produttività e in qualità. Taiichi Ohno insisteva molto su questo punto. Da noi invece pare non si voglia capire che, se i lavoratori partecipano al processo produttivo, si otterranno dei benefici di cui potranno godere tutti gli attori: l’azienda, il cliente e il sindacato. Molte imprese adottano esattamente questo principio. La produttività in più va un terzo a ridurre i prezzi (beneficio del cliente), un terzo all’impresa, che può investire e fare profitti, un terzo ai lavoratori sotto forma di premio. E’ un principio, può non piacere. A me sembra civilissimo.
Lo ripeto, Pomigliano è un accordo che prevede molti sacrifici, indubbiamente, però c’è anche un investimento in una fabbrica situata in un posto sfortunato dal punto di vista dell’occupazione.
Secondo me, volendo trattare per il bene degli operai, per il futuro di Pomigliano, dell’Italia ecc., la battaglia andava condotta sulla possibilità di una maggiore partecipazione dei lavoratori alla progettazione del posto di lavoro, in particolare sulla dimensione delle mansioni e sulla condivisione di lavoro in generale. La ricomposizione aumenta infatti la produttività e riduce gli sprechi. Inoltre il miglior modo per battere l’assenteismo è la partecipazione, non le minacce o le ritorsioni. Se volete che gli operai siano più presenti bisogna che siano coinvolti maggiormente nella gestione del lavoro.
Ecco, tornando alla domanda, l’Ergo Uas è uno strumento di supporto, è come un mega foglio elettronico con dentro tutta una serie di dati precostituiti che aiutano la progettazione delle posizioni del lavoro, tenendo conto della postura, delle azioni di forza, dei carichi, ecc.
Allora, anziché far la guerra, come al solito, su cose poco significative, o di principio, bisognava entrare nel merito. E il merito è questo: quale organizzazione del lavoro.
Sui temi della partecipazione il nostro paese sconta un ritardo forse anche culturale, da cui i sindacati non sono esenti.
Sulla partecipazione io penso questo. I sindacati italiani non hanno tradizione di partecipazione. E’ vero che la Cisl sostiene da sempre la partecipazione, principalmente a livello istituzionale, un po’ alla tedesca, secondo la forma della codeterminazione oppure come "azionariato operaio”. Ma purtroppo nel nostro paese è difficile realizzarla perché la maggior parte delle imprese italiane sono medio piccole. Come si fa la partecipazione istituzionale in un’impresa di 50 addetti di carattere familiare? E’ difficile da immaginare.
Invece credo che sia all’ordine del giorno la partecipazione dal basso, cioè quella che Bruno Manghi designa come "partecipazione organizzativa”. Che in pratica in moltissime aziende già c’è in forma ridotta. Per un milione di addetti metalmeccanici, il coinvolgimento nell’organizzazione del lavoro di fatto è enorme. L’artigiano, la piccola impresa, già oggi coinvolge il lavoratore, gli affida responsabilità gestionali importanti: la qualità, la commessa, il tempo, il rapporto col cliente, col fornitore. E’ una cosa comune in tutte le piccole e medie fabbriche. Bisogna strutturare meglio questa partecipazione dal basso all’organizzazione del lavoro, con più coraggio da parte di tutti, dei sindacati e degli imprenditori. Secondo me, se non c’è una forte partecipazione dal basso, non c’è innovazione e l’industria continuerà a declinare. Per non declinare, l’industria italiana ha bisogno di investimenti in innovazione, nuovi prodotti e nuove tecnologie, che vuol dire soldi, ricerche, applicazione e brevetti. Cose che non si vedono all’orizzonte.
Ma l’altra gamba del miglioramento è però -lo ripeto- la partecipazione. Va strutturata quella partecipazione informale, sui generis, che oggi è richiesta nella piccola impresa. Oggi si dà per scontato, ad esempio, che l’operaio italiano insegni all’operaio immigrato come si fonde, come si aggiusta la macchina ecc.; tutto è dato per scontato, non strutturato, non remunerato e, peggio ancora, non riconosciuto. Ci vuole più coraggio.
Bisogna anche stabilire dei sistemi reciproci di garanzia, ad esempio attraverso le commissioni congiunte.
La mia proposta è che si diffondano in tutta l’industria, compresa quella artigianale, le commissioni congiunte aziende-sindacati, sulle forme di partecipazione dei lavoratori all’innovazione e all’organizzazione. Se i lavoratori partecipano all’innovazione organizzativa non c’è bisogno di Ergo Uas, te lo trovano loro il sistema innovativo! Se poi imparano pure ad usare l’Ergo Uas, tanto di guadagnato, si calcolano i movimenti, i pesi, le fatiche ecc.
Lei denuncia una diffusa ignoranza sui modelli organizzativi innovativi e fa una proposta. Può raccontare?
E’ così. Anche nel caso delle discussioni su Pomigliano, il fatto che si confondesse l’Ergo Uas con il Wcm, o che non si sapesse cosa fossero, segnala un fenomeno di ignoranza diffusa, che coinvolge tutti, eh, anche gli imprenditori piccoli e medi.
Allora, l’industria italiana avrebbe molto da guadagnare dalla diffusione di aspetti di lean production o toyotismo. Il Wcm ovviamente non si può applicare a una piccola impresa, non avrebbe neanche senso. Si possono però prendere degli spunti, dei metodi, degli strumenti. La piccola e media impresa, da un lato, ha molti sprechi da eliminare, dall’altro, ha parecchio da guadagnare in termini di produttività, dall’applicazione, anche parziale, di spunti e di metodi presi dal Wcm, o comunque dal sistema Toyota. Però ci vuole la formazione dei lavoratori e dei capi (che talvolta sono ignoranti esattamente come i lavoratori) e anche dei manager di alto livello, che spesso sono ottimi tecnici, ottimi tecnologi, ma conoscono poco questo tipo di tecniche.
Ci vorrebbe una vera campagna. Io ho proposto ai sindacati di chiedere tre giornate obbligatorie di formazione su nuovi modelli organizzativi all’anno per tutti gli addetti all’industria del nostro paese. E’ il minimo che si possa fare per innovare l’industria. L’ho proposto ad alcuni segretari confederali e anche a Fim, Fiom, Uilm… vediamo se verrà fuori qualche idea.
Se non si opera su grande scala, con interventi drastici e approfonditi, è impossibile sperare di cambiare le cose.
Questo, ripeto, per la questione organizzativa. Poi c’è ovviamente l’aspetto di brevetti, nuove tecnologie, nuovi materiali, nuovi prodotti, per cui invece ci vuole la ricerca applicata, l’innovazione di prodotto, eccetera eccetera.
Per fortuna nel nostro paese c’è questa innovazione diffusa che non rientra nelle statistiche, per cui alcuni settori stanno reggendo la competizione e vanno bene, però il Governo non fa niente su questo punto, e anzi taglia i pochi soldi che ci sono.
Ma la prima gamba, quella della partecipazione dal basso, può già essere realizzata dappertutto, non ci sono limiti. Basta fare accordi nei contratti nazionali, locali, aziendali, che stabiliscano le forme di partecipazione dei lavoratori e demandino a commissioni congiunte azienda-sindacati, azienda-Rsu, la definizione di percorsi formativi.
Due-tre giorni all’anno dovrebbero essere obbligatori per tutti i lavoratori industriali italiani, cioè per cinque milioni di persone, se vogliamo sostenere la competizione. E poi forte iniezione di innovazione tecnologica dei prodotti. Allora forse riusciamo a campare.
Lei ha lanciato anche l’idea degli "orari a menù”. Può raccontare?
Uno dei pochi vantaggi dell’industria italiana è la flessibilità produttiva, che è nata in Italia negli anni Ottanta, nell’industria tessile e abbigliamento, per fronteggiare un mercato, dall’alta moda all’abbigliamento corrente, a dimensione mondiale, perché esportiamo in Europa, in America e adesso anche in altri paesi del mondo, ma segnato da picchi stagionali molto forti; un mercato variabile, difficilmente prevedibile, basti pensare a come cambia la moda dei vestiti, ma anche delle scarpe, delle calze, delle cravatte; è difficilissimo fare previsioni.
Già all’epoca, l’industria dell’abbigliamento si era data, anche contrattualmente, tutta una serie di clausole, ad esempio gli orari modulari, gli orari flessibili, la possibilità di cambio turni, eccetera, che hanno consentito ai distretti industriali e alla grande impresa di competere efficacemente sui mercati mondiali, con i fattori moda, con i fattori tempestività. Questa flessibilità produttiva è realizzata in parte attraverso macchine e impianti tecnicamente flessibili, in parte attraverso la modifica degli orari.
La modifica degli orari è normalmente imposta ai lavoratori con straordinari, ore in più, ore di flessibilità, cambio turno, inserimento di nuovi turni, nei periodi di punta, e invece uso di ferie, festività, recuperi, banca ore e quant’altro, nei periodi di bassa stagione.
L’industria tessile-abbigliamento tradizionalmente aveva un +20, -20, quindi un’oscillazione del 40% della capacità produttiva fra punti di picco e punti di bassa stagione. Anche alcune aree dell’industria meccanica sono vicine a fenomeni di questo genere, magari con valori un po’ più bassi, +10, -10, quindi intorno al 20%. Ci sono aziende particolari, molto orientate al mercato mondiale, che hanno punte pure più elevate, arrivando anche al + 25, -25, con una variazione dell’attività produttiva che può sfiorare il 50%. Sono valori enormi. Non a caso, i tedeschi e i francesi, dopo la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore nella seconda metà degli anni Novanta, nei primi anni Duemila hanno imparato a gestire orari flessibili copiando l’Italia. Infatti lì si dice: orari più flessibili "all’italiana”.
Come dicevo, questa flessibilità è una delle componenti della capacità competitiva, soprattutto per le imprese della moda, ma in generale per le imprese che hanno problemi di consegna rapida, e poche aziende in Italia non hanno problemi di consegna rapida e puntuale della commessa. Qual è il problema? Che aumentare ulteriormente questa flessibilità produttiva diventa molto pesante per i lavoratori, perché si trovano orari imposti dalla sera alla mattina, sabati lavorativi, notti, turni, ore di straordinario, richieste continue di lavorare in più o di lavorare in meno.
Allora la domanda è: non è possibile trovare una formula in cui l’azienda può chiedere di più, a certe condizioni, e i lavoratori avere una contropartita? Non è possibile conciliare le esigenze dei lavoratori con le esigenze dell’impresa? In tema di orario, io dico di sì. Come? Bisogna che l’impresa investa nella programmazione, che non vuol dire pianificare alla sovietica, ma programmare le commesse in modo un po’ più efficace, tenendo conto delle esigenze dei lavoratori.
La formula del "menù” consiste proprio nel predefinire i modi in cui l’azienda può chiedere al lavoratore di fare più ore, ad esempio il sabato mattina, un’ora in più di straordinario, la notte, il turno. Dopodiché il lavoratore ha anch’egli a disposizione le forme in cui può chiedere di lavorare di meno; uno, per dire, può prendersi giornate intere di permesso, non lavorare il venerdì pomeriggio, ridurre di un’ora lavorativa tutti i giorni... sono forme diverse, che si portano dietro strategie di vita diverse.
Fare una programmazione di questo genere è possibile.
Funziona così: l’impresa dichiara, con un certo anticipo (da uno, due a sei mesi) i suoi fabbisogni di lavoro, per figure professionali e per reparto; i lavoratori aderiscono a questo fabbisogno, programmandosi a loro volta per quel periodo. Dopodiché si vede se c’è un matching, se c’è un incontro. L’esperienza dimostra, nei pochi casi in cui questo sistema viene applicato, che facendo girare informalmente il fabbisogno, e dichiarandolo, al 70-80% si trova chi fa il lavoro. Quel 20-30% che manca può essere recuperato trovando dei volontari. Al limite l’impresa può far valere un certo numero di ore che può comandare, il famoso "straordinario comandato”. Più o meno in tutti gli accordi aziendali o nazionali esiste una quota comandata. Anche in Fiat ci sono i famosi sabati obbligatori. L’accordo Merloni prevedeva sei sabati; l’accordo Occhialeria prevede 96 ore annue, eccetera.
Alla rovescia, i lavoratori possono a loro volta chiedere quando riprendere le ore fatte in più, cercando di posizionarle nei periodi di bassa stagione, oppure minimizzandole nei periodi di alta stagione, proprio per esigenze indefettibili di carattere personale. L’esperienza dimostra che, se le persone entrano in quest’ottica di scambio, quando ci sono i grandi numeri (nella microimpresa con cinque addetti è ovviamente più difficile) e quindi tante esigenze diverse, la soluzione si trova.
Inoltre la soluzione è ovviamente più facile quanto più elevata è la polivalenza. Al limite, se in un’impresa ciascuno sapesse occupare tutti i posti di lavoro, si tratterebbe solo di trovare il numero x di ore in più, che è una cosa che si trova sempre. Più difficile è quando solo certe persone sanno lavorare su certi posti. Quindi la polivalenza è un fattore piuttosto rilevante.
Inoltre, non c’è bisogno di lasciar scegliere al lavoratore il 100% dell’orario, perché poi la gente, normalmente, vuol lavorare nelle ore che già lavora. Il conflitto sull’orario nasce per poche ore e riguarda soprattutto le donne: andare a prendere il bambino a scuola, portarlo, la mamma ammalata, la spesa, la visita del dottore, il trattamento chirurgico, sono piccole quantità di ore. Ecco, nel sistema degli orari a menù, una piccola quantità di ore lasciata alla libertà del lavoratore può favorire una grande quantità di ore globali lasciate all’impresa.
Ho in mente l’esperienza dell’Italiana Assicurazione, un ambiente impiegatizio milanese, dove la semplice concessione di poche ore di permesso aggiuntivo, suppletivo, agli impiegati che avevano particolari problemi (che poi sono i soliti problemi: i bambini, gli anziani) tutta una serie di persone avevano avuto la vita enormemente semplificata. Un’altra dimostrazione che non bisogna stravolgere tutto o pensare a chissà che.
Purtroppo la maggior parte degli imprenditori faticano a capire che se lasciano la libertà al lavoratore di scegliere alcune ore, la loro libertà aumenta. E’ una difficoltà concettuale: qualsiasi imprenditore o dirigente tende a pensare che "se gli dai un dito poi si portano dietro il braccio...”. Invece nel caso degli orari è controintuitivo, ma funziona proprio così: se tu lasci un po’ più di libertà al lavoratore di prendersi alcuni pezzetti di orario, scoprirai che in cambio te ne darà molti di più.
Perché nel nostro paese è così scarso l’uso del part time? Alcune donne dopo la maternità si vedono costrette a lasciare proprio perché non viene loro concessa questa possibilità.
Lo scarso ricorso al part time è legato a un fenomeno culturale, cioè al fatto che l’impresa italiana vuole il dipendente sempre lì. L’industria tedesca funziona benissimo, a fine orario escono tutti, compreso l’amministratore delegato. Qui da noi stanno sino a tarda notte. Se non stai lì, spesso a far niente, non sei nessuno. E’ una questione culturale. Poi c’è una questione organizzativa: da noi l’informalità delle organizzazioni richiede -secondo i capi, ma non è vero secondo me- la presenza costante di tutti. Per cui il part time viene considerato non funzionale. In realtà è solo perché le aziende sono organizzate male.
Comunque qui la questione è tanto semplice quanto urgente. Cioè o si dà il part time almeno a un paio di milioni di donne, nei prossimi anni, e orari a menù per i giovani, soprattutto meridionali, oppure ci saranno quattro milioni di nuovi immigrati (due milioni di lavoratori e due milioni di familiari), con le conseguenze che possiamo immaginare, visto che già oggi al Nord si vota Lega essenzialmente per paura dell’immigrato.
Noi non siamo ancora ai livelli della Germania o dell’Inghilterra, però nel nostro paese il fenomeno dell’immigrazione è stato molto più rapido, più visibile, con problemi di integrazione più elevati. Un’alternativa a questo scenario è diffondere massicciamente il part time alle donne, ma anche agli uomini, promuovendo forme di orario più flessibili per i giovani. Sennò è matematico, basta leggere i demografi, gli statistici: già oggi ci sono dei buchi pazzeschi di manodopera giovane, soprattutto nei lavori "sporchi e faticosi” e inoltre negli ospedali, nei cantieri, nelle fonderie.
Bisogna intervenire cambiando la cultura, l’organizzazione: i sindacati dovrebbero muoversi in questo senso, invece latitano. Il voto alla Lega io lo interpreto anche come paura della concorrenza degli operai immigrati. I salari in Italia hanno cominciato a scendere esattamente in parallelo alla crescita dell’immigrazione, perché milioni di immigrati calmierano verso il basso il salario, su questo non c’è dubbio. E la percezione della gente che vota Lega in questo senso non è sbagliata. E’ un fenomeno che trova conferma nei numeri e la gente lo intuisce.
Gli orari a menù hanno l’ambizione di combinare un gioco a somma positiva, virtuoso, fra esigenze del lavoratore e esigenze dell’impresa, perché se l’orario è meno imposto, più condiviso, almeno parzialmente negoziato, con più libertà per il singolo, la libertà dell’impresa di avere più flessibilità è garantita.
Lo ripeto, è controintuitivo, ma laddove è stata fatta questa esperienza, come alla ZF di Selvazzano (Padova), i risultati sono stati straordinari perché quando una quota parte dell’orario è scelta dal lavoratore, crolla l’assenteismo, in quanto la gente si sente legata a un patto, per cui cerca di andare a lavorare anche se ha qualche difficoltà, migliora il funzionamento del sistema organizzativo aziendale e scompaiono gli straordinari, che tra l’altro creano confusione. Ecco, un’altra cosa che bisogna dire è che lo straordinario, strausato in questo paese, è estremamente dispendioso. Certo, apparentemente costa di meno, perché l’ora straordinaria adesso è detassata e defiscalizzata, in realtà, siccome lo straordinario è volontario e c’è sempre disorganizzazione, per l’impresa sono ore molto meno produttive di quelle ordinarie. Quindi alla fine il costo è elevato.
Un sistema a menù dà più ordine alla produzione, ne riduce i costi e ne aumenta la qualità, rafforza l’adesione dei lavoratori, fa crescere la fiducia reciproca fra lavoratori e impresa. Oltretutto così l’impresa fa meno fatica, perché adesso cercar straordinari non è mica facile, i capi lo sanno, per un po’ molti lo fanno volentieri, ma oltre certi limiti diventa un’imposizione, per cui... Spesso succede che un’impresa non rispetta la commessa perché non si è trovato chi faceva lo straordinario.
Si tratta di un altro fattore di confusione, di gestione irrazionale del sistema produttivo, proprio all’italiana.
Già oggi esistono sistemi a menù molto informali, nella piccola e media impresa, laddove, ad esempio, ci si accorda sulle ferie secondo l’andamento delle commesse. D’altronde è vero che le imprese vorrebbero poter comandare negli orari, ma sotto sotto cercano sempre l’accordo dei lavoratori. Si tratterebbe anche qui di dare più scientificità, più formalizzazione, più efficacia, a un meccanismo che attuato informalmente fa fatica ad aiutare a gestire bene le fabbriche.
Nel nostro paese l’unico caso veramente emblematico di adozione di orari a menù che conosca è la ZF, io non ne ho trovati altri in giro.
Si tratta di una ditta tedesca, di proprietà semipubblica, perché la maggioranza è detenuta da un piccolo Comune tedesco, Friedrichshafen, sul lago di Costanza, sede della fabbrica dei dirigibili Zeppelin. Il proprietario aveva dato disposizioni affinché alla sua morte le sue azioni venissero date al Comune, che oggi risulta proprietario di maggioranza.
E’ un’impresa incredibile, con un management spesso orientato all’accordo coi sindacati. Nel 2001 la ZF ha stilato un accordo straordinario, realizzando in pieno quello che a me sembrava un’utopia in questo paese. Loro invece ci sono riusciti. E’ un sistema bellissimo, anche dal punto di vista tecnico, di programmazione della produzione.
In sostanza, grazie a un sistema computerizzato, programmano contemporaneamente le commesse, gli ordini, quindi il flusso dei materiali, la lavorazione delle macchine e l’orario di lavoro delle persone, partendo non dall’orario dato, ma dai desiderata dei lavoratori. Attraverso diverse simulazioni raggiungono l’ottimo nella pianificazione della produzione sincronizzando lavoratori, macchine, commesse. Con risultati stupefacenti.
La loro capacità di consegnare puntualmente la commessa è diventata infatti leggendaria, perché in una situazione molto complicata, riescono, con diversi mesi di anticipo, ad azzeccare esattamente il giorno di consegna della commessa!

«Flessibilità, conciliazione, produttività: l’equilibrio possibile» Percorso di formazione e consulenza 29 novembre 2012 Sede del Consiglio Regionale di Reggio Calabria –Sala Giuditta Levato


Si terrà il 29 novembre, alle ore 14:30, presso la Sala “Giuditta Levato” del Palazzo del Consiglio Regionale la giornata di presentazione del percorso di formazione e consulenza sul tema "Flessibilità, conciliazione, produttività: l’equilibrio possibile", organizzata da Italia Lavoro nell'ambito del progetto La.Fem.me – Lavoro Femminile Mezzogiorno, in collaborazione con la Consigliera Regionale di Parità della Calabria, Maria Stella Ciarletta.
Il seminario è rivolto ad aziende, sindacati, associazioni di categoria per coinvolgerli attivamente nel progetto, che si propone di promuovere nel tessuto economico locale misure di flessibilità organizzativa e oraria, interventi di accompagnamento alla maternità, programmi di welfare aziendale e/o territoriale funzionali a favorire incrementi di produttività e migliorare la conciliazione lavoro-famiglia, anche attraverso la contrattazione di secondo livello.
I lavori saranno aperti dalla Consigliera Regionale di Parità Stella Ciarletta, e vedranno susseguirsi gli interventi di Antonella Marsala su “Flessibilità organizzativa e conciliazione in un'ottica di recupero della produttività”, Emanuela Mastropietro e Simona Piacentini presenteranno “Idee e soluzioni per promuovere misure di conciliazione lavoro-famiglia nelle aziende: servizi del progetto”. I consulenti Luciano Pero e Diego Paciello parleranno, rispettivamente, di miglioramento nell'organizzazione del lavoro attraverso la negoziazione e la partecipazione e delle misure di welfare aziendale e territoriale, leve fiscali e riferimenti normativi. Le conclusioni spetteranno al Dirigente Generale del Dipartimento Lavoro, Politiche della Famiglia, Formazione Professionale, Cooperazione e Volontariato della Regione Calabria Bruno Calvetta e alla Consigliera Nazionale di Parità supplente Daniela De Blasio. Per info e prenotazioni scrivere a infolafemme@italialavoro.it."La.Fe.Mme."

mercoledì 21 novembre 2012

"Flessibilità, Conciliazione, Produttività: l'equilibrio possibile"

Giornata di presentazione del percorso di formazione e consulenza sul tema "Flessibilità, conciliazione, produttività: l’equilibrio possibile", organizzata da Italia Lavoro nell'ambito del progetto La.Fem.me – Lavoro Femminile Mezzogiorno, in collaborazione con la Consigliera Regionale di Parità della Calabria.
    Il percorso, a cui l'azienda potrà scegliere di aderire gratuitamente, è strutturato attraverso la formazione e consulenza di un gruppo di esperti del progetto La.Fem.mecon il fine di individuare e diffondere:
    • prassi virtuose legate alla flessibilità oraria e organizzativa;
    • programmi di accompagnamento per il rientro dalla maternità;
    • piani di welfare aziendale e/o territoriale, con implicazioni
    di carattere fiscale.
    • modalità di sviluppo delle misure nelle Piccole e Medie Imprese.
    Il progetto, infatti, si propone di promuovere nel tessuto economico locale misure di flessibilità organizzativa e oraria, interventi di accompagnamento alla maternità, programmi di welfare aziendale e/o territoriale funzionali a favorire incrementi di produttività e migliorare la conciliazione lavoro-famiglia, anche attraverso la contrattazione di secondo livello.  L'iniziativa è stata fissata in data
29 Novembre 2012, Reggio Calabria

Sede del  Consiglio Regionale di Reggio Calabria –Sala Giuditta Levato

domenica 18 novembre 2012

«Flessibilità, conciliazione, produttività: l’equilibrio possibile» Percorso di formazione e consulenza - 29 novembre Reggio Calabria


«Flessibilità, conciliazione, produttività: l’equilibrio possibile»
Percorso di formazione e consulenza
Presentazione progetto "La.Fe.Mme", 29 novembre 2012 ore 14:30
Palazzo del Consiglio Regionale - Sala "Giuditta Levato"

Bozza Programma

Registrazione partecipanti

Apertura dei lavori
Stella Ciarletta – Consigliera di Parità della Regione Calabria

Flessibilità organizzativa e conciliazione in un’ottica di recupero della produttività
Antonella Marsala - Italia Lavoro  

Idee e soluzioni per promuovere misure di conciliazione lavoro famiglia nelle aziende:    i servizi del progetto
Emanuela Mastropietro/Simona Piacentini- Italia Lavoro

Migliorare l’organizzazione del lavoro nelle aziende: l’importanza della negoziazione e della partecipazione 
Luciano Pero

Misure di welfare aziendale e territoriale. Leve fiscali e riferimenti normativi
Diego Paciello

Presentazione del percorso di formazione e laboratori consulenziali alle aziende Emanuela Mastropietro- Italia Lavoro

Conclusioni 
Bruno Calvetta, Dirigente Generale - Lavoro, Politiche della Famiglia, Formazione Professionale, Cooperazione e Volontariato - Regione Calabria
Daniela De Blasio, Consigliera Nazionale di Parità Supplente

Interventi dei partecipanti e raccolta delle adesioni al percorso formativo/informativo  


Aperitivo 


giovedì 15 novembre 2012

Quote Rosa nei CDA - La Commissione Europea approva la direttiva Reding


La Commissione Europea ha approvato ieri la proposta di direttiva della vice presidente della Commissione europea e Commissario europeo per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza Viviane Reding  per favorire un’equa rappresentanza di entrambi i generi all’interno dei consigli di amministrazione delle società quotate di tutta l’Unione europea, destinando a quello meno rappresentato il 40 per cento dei posti.
Il testo era stato oggetto di una precedente discussione in Commissione, che aveva visto la mancanza di unanimità sui contenuti ed aveva determinato l'Unione europa a rinviare il voto.
Il testo approvato è  stato, nelle more, in parte modificato rispetto al precedente. Il cambiamento più rilevanti riguarda il potere di sanzione in caso di mancato rispetto delle norme, che viene lasciato in capo ai singoli Stati. 
Di seguito, i principali contenuti della direttiva approvata ieri:
- la determinazione di un obiettivo minimo del 40% entro il 2020 riservato al genere meno rappresentato per le cariche di membri non esecutivi dei consigli di amministrazione delle società europee quotate in borsa, termine anticipato al 2018 nel caso delle società pubbliche.
- una misura complementare, chiamata “flexi-quota”: un obbligo per le società quotate di porsi obiettivi individuali di autodisciplina in materia di rappresentazione di entrambi i generi nel collegio di amministratori esecutivi, che dovranno essere raggiunti entro il 2020 (o 2018, anche in questo caso, per le società pubbliche). Le imprese dovranno riferire annualmente sui progressi compiuti.
- La meritocrazia. La Commissione chiarisce che “qualificazione e merito rimarranno i criteri chiave per un posto in un board". La direttiva stabilisce un livello minimo di armonizzazione dei requisiti di corporate governance perché la decisione di nomina dovrà essere basata su criteri oggettivi. Le garanzie presenti nel testo faranno in modo che non ci sia un’automatica e incondizionata promozione del genere sottorappresentato. In linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea in materia di azioni positive, a parità di qualifiche la preferenza è data al candidato appartenente al genere meno rappresentato, a meno che una valutazione obiettiva che tenga conto di tutti i criteri specifici dei singoli candidati sposti la bilancia a favore del candidato dell’altro sesso”.
- l’esclusione dall’applicazione obbligatoria di queste norme per le piccole e medie imprese.
- la propria “data di scadenza”: esattamente come previsto nella legge italiana, la direttiva è una misura temporanea e terminerà la propria vigenza nel 2028.

mercoledì 14 novembre 2012

Avvocati pugliesi: arriva il fondo per il sostegno alla genitorialità

Buone notizie per gli avvocati della Puglia. È stato pubblicato il bando per accedere al fondo per il sostegno alla genitorialità degli avvocati e dei praticanti. È stato creato dall'Ordine degli avvocati di Bari e dall'assessorato al Welfare della Regione Puglia, ed è riservato a chi non è iscritto alla Cassa forense ed ha un reddito familiare annuo non superiore a 50mila euro. La domanda per l'ammissione al fondo può essere presentata entro 60 giorni dalla pubblicazione del bando. Le risorse disponibili, per conciliare lavoro e vita familiare, sono pari a 425mila euro. Sono previsti rimborsi anche per l'accudimento dei minori.

La doppia preferenza di genere è legge. Giornata storica per le donne italiane

La doppia preferenza di genere è legge. Giornata storica per le donne italiane.

Come scrivono i giornalisti, le "quote rosa" sono legge, e in quanto tali diventano obbligatorie già dalle prossime elezioni comunali.
Dopo un iter travagliato in Senato, il testo della legge, che assicura il riequilibrio per una pari opportunità di genere in consigli e giunte degli enti locali, nei consigli regionali e nelle commissioni di concorsi pubblici, È stato approvato alla Camera con  349 voti a favore, 25 contrari e 66 astensioni.
Il testo prevede, tra l'altro, per i comuni sopra i 15mila abitanti, la decadenza delle liste che non rispettano le quote rosa oltre che la 'par condicio rosa' per le presenze in tv in campagna elettorale.
La legge approvata andrà applicata dalle prossime elezioni. Prevede che nelle liste dei candidati alle comunali nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi. E che, qualora non sia così, la lista venga ridotta cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere più rappresentato. In caso di violazione di questo principio, nei comuni sopra i 15mila abitanti, la lista decade. I paesi più piccoli sono stati salvaguardati dalla sanzione più dura perché lì decadrebbe anche il sindaco. C'è poi la possibilità di esprimere due preferenze, invece che una, per i candidati a consigliere comunale, a patto che si tratti di un uomo e di una donna. In caso contrario, si annulla la seconda preferenza. 
Ci sono tutti gli ingredienti perchè con il 2013 si apra una nuova stagione elettorale, nel corso della quale la candidature femminili dovranno avere gli stessi spazi e le medesime chance degli uomini in una prospettiva di riequilibrio nella rappresentanza politica e di reale democrazia paritaria.
La Consigliera Regionale di Parità
Stella Ciarletta

giovedì 8 novembre 2012

Legge contro l'omofobia, intervenga il Governo

Non posso che condividere il rammarico  espresso dal ministro del Lavoro e delle pari opportunita', Elsa Fornero per la bocciatura in Commissione Giustizia della Camera della proposta di legge contro l'omofobia e la transfobia in quanto ''il riconoscimento della specificita' dei reati di omofobia e transfobia rappresenta un principio di civilta', riconosciuto con una specifica disposizione normativa''.
Ieri, infatti, la commissione Giustizia della Camera ha respinto, con i voti dei rappresentanti di Pdl, Lega e Udc il testo base per una nuova legge contro l’omofobia e la transfobia, che prevedeva l’estensione della legge Mancino e che era stato adotatto con i voti di Pd e Idv.  
Il disegno di legge prevedeva l’estensione della legge Mancino, cioè l’introduzione di un’aggravante per i reati basati sulla discriminazione in base all’orientamento sessuale.
Mentre nel resto del mondo si allarga la fascia dei diritti riconosciuti e tutelati, basti pensare ai matrimoni omosessuali introdotti in ben tre stati americani, e le istituzioni europee chiedono una legislazione di protezione delle vittime di violenze omofobiche, i parlamentari italiani mostrano, per l'ennesima volta, la propria incapacità ad ascoltare ed accogliere le istanze della società civile.
Pertanto, mi domando se non sia opportuno un intervento diretto del Governo, così come avvenuto altre volte in passato e superare così l'empasse di una classe politica inadeguata a garantire e tutelare i diritti civili di tutti i cittadini.